Salve popolo!
I Menes menes sembrano riturarsi dai campi di battaglia perchè sconfitti dai Gufi nella fretta campagna lombarda.
Oggi non ho niente di particolare da scrivervi quindi riciclerò una specie di recensione che devo portare martedì all'università.
La recensione riguarda il capolavoro di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini "Ladri di biciclette" (1948), se non l'avete mai visto sappiate che è uno dei 100 film da vedere assolutamente.
Ecco a voi la recensione:
Roma città chiusa
“Ladri di biciclette” (Vittorio De Sica; 1948), favola ed Odissea moderna, visione onirica dove l'oggetto del desiderio è onnipresente ma mai raggiungibile. Dolcezza, tristezza, delusione ed angoscia si mischiano e si alternano in questa Roma del dopoguerra, in cui i nostri protagonisti (Antonio Ricci ed il figlio Bruno) sono allo stesso tempo risucchiati e rigettati. Emarginato dalla massa fin dalla prima sequenza, che lo vede in disparte rispetto agli altri disoccupati in cerca di lavoro, Antonio è un padre ed un marito a cui la guerra ha tolto tutto ma la speranza sembra affacciarsi alla porta quando gli viene offerto un posto da attacchino per cui è necessaria una bicicletta, che però gli viene rubata il primo giorno di lavoro; Da qui, per Antonio e per il figlio Bruno, inizia l'odissea per la ricerca della fantomatica bicicletta, simbolo di speranza per la rinascita ed il benessere del piccolo gruppo familiare. Una Roma deserta fa da sfondo a questo piccolo ed universale dramma; una Roma ostile, che tende ad escludere: I nostri piccoli eroi sono cacciati da Piazza Vittorio, vengono persino beffeggiati dalle condizioni meteorologiche nel loro tragitto per Porta Portese, al loro arrivo in una trattoria sono quasi snobbati dal cameriere, persino in chiesa gli viene chiesto di stare zitti o di andarsene, la polizia, che dovrebbe stare dalla parte dei giusti, non li capisce.
Onnipresenti in ogni scena, quasi volesse beffarsi dei due, sono le biciclette; le troviamo a Piazza Vittorio, la prima fermata del viaggio: le soggettive frenetiche di Antonio e Bruno ci fanno capire fin dall'inizio che il ritrovamento della bicicletta è praticamente impossibile. Una marea di biciclette fugge sotto la pioggia scrosciante anche da Porta portese, quasi fosse un fiume in piena.
In ogni quadro di questo dramma De Sica ci mostra con infinita poesia lo stato d'animo dei protagonisti con dei timidi primi piani in cui è sempre evidente la tristezza e lo spaesamento disegnati nei loro occhi. Come quando, ad un certo punto, Antonio perde di vista Bruno ed inizia a cercarlo urlando il suo nome, oppure nella magistrale sequenza finale, quando il piccolo prende per mano il padre in lacrime, come se volesse condurlo verso casa; De Sica però non sembra ottimista, infatti, padre e figlio sembrano risucchiati dalla folla, in una Roma che non guarda in faccia nessuno.
Mi congedo.
-E-
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